Dalle schiscette ai sostitutivi dei pasti, l’era del cibo è davvero finita?
Termine puramente milanese, “schiscetta” indica il contenitore in metallo con coperchio che si usa(va) per portarsi il pranzo al lavoro.
Riuscire a far stare la giusta quantità al suo interno richiedeva un po’ di pressione in più, da qui il cibo schiacciato, in dialetto milanese “schisciaà” a cui il contenitore deve il suo nome. Negli ultimi anni la schiscetta al lavoro sembra essere tornata di moda: per comodità, etica o per fare economia, per abitudini alimentari che si fanno sempre più dettagliate, il pranzo viene preparato a casa la sera prima o la mattina di corsa. Ha avuto un ritorno forse perché sul posto di lavoro sempre più spesso sono disponibili le aree in cui è possibile riscaldare il cibo e mangiare senza correre a fare la fila a mensa o al bar, per un tramezzino freddo e magari anche un po’ insapore.
Negli ospedali, negli uffici, nei cantieri, in treno, capita spessissimo di vedere in giro, all’ora di pranzo, questi contenitori dai quali spunta qualsiasi tipo di pietanza e, nonostante le mense, accade sempre più spesso anche all’università, nella maggior parte dei casi per garantirsi una qualità del cibo più alta. Per alcuni è forse imbarazzante portarsi il cibo da casa ma non c”è davvero nulla di male, tant’è che il mondo del design è andato incontro a questo tipo di esigenze proponendo contenitori più pratici ma anche esteticamente più accattivanti. Schiscetta: un tripudio di panini, torte salate, frittate, pasta, verdura, gli avanzi del giorno prima, un solo pasto o tutte le portate al completo rinchiuse nella scatolina di metallo, plastica o silicone, in base alle abitudini, le preferenze e il tempo che si ha a disposizione. Di siti dedicati a questo “stile di vita” che va per la maggiore a Milano (vista l’alta densità di uffici) ce n’è tantissimi; post in cui si condividono idee pratiche e soprattutto molte ricette, come nel lavoro di Miss Schiscetta che ne parla abbondantemente non solo dal punto di vista culinario ma anche da quello sociologico.
Si racconta che l’idea della schiscetta (o gavetta) è opera di una portinaia milanese che si era proposta di consegnare il cibo a pranzo ai frettolosi impiegati che abitavano nel suo condominio. Anche se è noto prevalentemente in Lombardia, pare che oggi il termine “schiscetta” stia tornando prepotentemente in auge, anche dopo essere stato rimpiazzato dall’americano più in “lunch box“. Che sia schiscetta, gavetta oppure altro, negli uffici è onnipresente, la scatolina è la regina indiscussa della pausa pranzo.
Da Milano al Giappone: bentō come forma d’arte “a breve termine”
In Giappone si chiama bentō ed è la dimostrazione ulteriore che cucinare è un’arte ma che anche preparare una bentō lo è. Esistono libri e siti che danno consigli su come organizzarla al meglio e in quanto a organizzazione, si sa, i giapponesi sono imbattibili. Non conta solo la sostanza ma anche – e forse anche di più – la forma. La casalinga prepara la bentō con estrema cura per non far sfigurare i suoi familiari. Ci tengono così tanto che nulla è lasciato al caso, al punto che spesso le decorazioni si ispirano ad anime e manga, esistono vere e proprie gare in cui si presentano le composizioni e ci sono servizi fotografici, di blogger o professionisti, che ritraggono i lavori più gradevoli e di forte impatto estetico. La prima scatola di legno nata come contenitore di cibo in Giappone risale alla seconda metà del 1500, ed è andata via via raffinandosi. Le scatole in alluminio arrivarono nei primi anni del Novecento ma a quell’epoca possederne una era considerato un lusso, perciò lentamente l’uso andò in declino, fin quando non ritornò nella più accessibile e “democratica” versione di plastica. Dietro questa preparazione apparentemente così banale ci sono dei risvolti sociologici da non sottovalutare: in Giappone prevalgono la competitività e l’apparenza (con tutto il lavoro da cui scaturisce), che vogliono essere dimostrazione di affetto e impegno per chi andrà a consumare il pasto e di bravura per chi il pasto lo guarda soltanto. Non è difficile trovare sushi a forma di panda, riferimenti a Hello Kitty, animaletti irresistibili per i più piccoli, fiori e colori sempre perfettamente coordinati.
Se è vero che a Milano tutto diventa tendenza, anche la pausa pranzo lo fa. Da qui arriva il sempre più diffuso utilizzo di Joylent (la versione europea di Soylent), nato come sostitutivo dei pasti, perché purtroppo spesso si ha pochissimo tempo da dedicare al cibo. O meglio, porta a una netta distinzione tra il mangiare per necessità e il mangiare per piacere. A produrlo in Europa è l’imprenditore olandese Joey van Koningsbruggen, che ha dato vita a questo “beverone” che contiene tutti i requisiti nutrizionali per una dieta sana e completa e che ha già convinto molti nutrizionisti. Ottimizza i tempi durante la pausa pranzo e, essendo un pasto completo a tutti gli effetti, lascia un senso di sazietà ed è di certo più sano di una scelta che per fretta e velocità potrebbe ricadere sul solito kebab, la solita pizzetta o, peggio ancora, il solito fast food. L’avvento del Soylent aveva allarmato a suo tempo i classicisti e i puristi della cucina. Lizzie Widdicombe del New Yorker nel 2012 parlava della “fine del cibo”: il Soylent prende il suo nome dal film “Soylent Green” del 1973 (in Italia conosciuto come “2022: i sopravvissuti“) ma la realtà distopica narrata lì è ben più inquietante di quello che il Soylent attualmente in commercio rappresenta, vale a dire la comodità. Meglio una torta di mele fatta in casa e un buon hamburger o una “sbobba” che sa di cioccolato o di fragola? La risposta viene da sé ma è importante fare la distinzione, ancora una volta, tra il mangiare per piacere e il dover mangiare. Quale futuro, quindi, per il cibo? Non iniziate a tremare, non sarà questo. O meglio, non sarà solo questo ma anche questo. Restiamo inclusivi.
Foto di Federica Di Giovanni
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