I punk sono meno punk di quello che pensiamo
Il punk come stile di vita è diventato infatti quello di “God save the Queen” e “Rock the Casbah”, contro il sistema e in particolare l’autorità. La prima immagine che viene in mente, pensando a un punk, è qualcuno che indossa il chiodo di pelle, con borchie appuntite, sfoggia tatuaggi, abiti sadomaso, piercing e ha la testa rasata, sulla quale spicca una cresta sapientemente tenuta su e, all’occorrenza, colorata, tanto per non passare inosservati. Obiettivo: scandalizzare. Nel punk confluiscono più generi, derivanti prevalentemente dal rock. Oggi di quell’anti-cultura è rimasto ben poco. Anche il punk ha subito la sua trasformazione, sdoganato e non più sottocultura, ha ceduto anch’esso al fascino pop del capitalismo contro cui si batteva alle origini. Vedere il logo dei Sex Pistols sui jeans glitterati di una fashion blogger potrebbe fare inorridire più dei denti che Johnny Rotten sfoggiava 1975.
Il punk nasceva sulla scia di un’altra ribellione, quella iniziata negli anni ’50 e poi confluita nelle proteste di fine anni ’60 e che negli anni ’80 si era ormai fatta obsoleta. Le nuove generazioni necessitavano di forme espressive, punti di riferimento e cause nuovi. Da qui i comportamenti eccentrici e provocatori, le sonorità violente e il rifiuto delle convenzioni che tutti conosciamo. Le interpretazioni del punk cambiano a seconda della percezione e della prospettiva: le provocazioni politiche in cui venivano sfoggiate le svastiche, per esempio, in realtà fomentarono un filone ricaduto poi sul nazi-punk che ha portato a confonderli con gli skinhead, nonostante le due ideologie fossero agli opposti. La vastità di questa enorme sottocultura genera spesso confusione ma cos’è il punk oggi? Il vero punk, ai nostri giorni, si riconosce da ciò che si mangia. L’avreste mai detto di un vegano, che è punk?
La punk cuisine, il rispetto del cibo e dell’ambiente
Ne ha parlato Dylan Clark nel 2004 nel lungo articolo “The Raw and the Rotten: Punk cuisine”. Quest’ultima è definita come un “sistema culinario subculturale con una propria grammatica, logica, esclusività e simbolismo”. Partendo dal presupposto che Clark identifica il punk come la critica alla whiteness – la predominanza dell’uomo bianco – al patriarcato, alla distruzione ambientale e al consumismo, la punk cuisine si sviluppa in un contesto specifico come quello del Black Cat Cafè di Seattle. Sebbene in questa subcultura vi siano caratteristiche facilmente riscontrabili in altre culture e ideologie, quello di cui parla Dylan Clark è riconducibile a filone straight edge del punk, tutt’altro che nichilista e per nulla favorevole alle droghe.
“I punk credono che il cibo industriale riempia il corpo di una persona di norme, inquinamento morale, capitalismo, industrializzazione e imperialismo. Il punk rifiuta tutti questi veleni e non vuole rientrare nell’etichettatura di “bianco” e nella società americana mainstream”. Il cibo non è un semplice alimento ma permette di elaborare e strutturare ideologie, che hanno visto il Black Cat Cafè diventare un vero e proprio punto di riferimento. Prodotti realizzati in casa, a chilometro zero, l’eliminazione di tutto quel feticismo che oggi ruota attorno al cibo, poca attenzione all’apparenza estetica, importanza primaria al cibo “preparato con amore”, ecco cos’è il punk. Come già detto, tra i presupposti rientra anche una certa critica al patriarcato e quindi si fa spazio un femminismo che giustifica la scelta del vegetarianesimo. Il cibo, già in epoca vittoriana, era una forma di controllo così affermata che portava allo sviluppo di disturbi alimentari, per via dei sacrifici, in particolare relativi all’estetica, richiesti alle donne. A questo si aggiunge il fatto che la carne, secondo questo filone di pensiero, richiama la violenza fisica e ricorda il potere dell’uomo e, appunto, il patriarcato. Questo rende il femminismo punk vicino al vegetarianesimo e al veganesimo, con un’attenzione all’ambiente e la lotta agli sprechi degni di qualsiasi altra tipologia di attivisti del settore. Per la maggior parte delle persone vedere qualcuno raccogliere gli avanzi di cibo da un cassonetto è disgustoso; la raccolta del cibo sprecato, anche dai supermercati, invece, si può considerare punk attitude. La (dis)organizzazione anarchica Food Not Bombs, per esempio, ha deciso di politicizzare il cibo e di impegnarsi per distribuirlo ai senza tetto. Nell’immaginario collettivo un punk non sarebbe impegnato sulla filantropia ma incasellare un genere che per definizione non vuole essere etichettato è veramente impresa ardua. Per molti, per esempio, è stato punk l’approccio al cibo del compianto Anthony Bourdain, incluso il suo amore per le frattaglie e derivati. Su Munchies è stato definito il primo chef punk-rock. L’attitudine è stata la stessa: rimanere fuori dagli schemi, raccontare i retroscena di un mondo tutt’altro che perfetto e luccicante. Punk è stata la sua amicizia con Iggy Pop, infatti Bourdain ha vissuto in pieno gli anni del punk musicale, lo ha amato e se l’è portato dietro per tutto il suo percorso. Sapeva fare controcultura anche quando sedeva al tavolo di un umile ristorantino di Hanoi con l’ex Presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Il confine tra mainstream e sottocultura – e Bourdain ne è il caso emblematico – è davvero sottilissimo e diventa impercettibile quando la seconda inizia ad essere compresa e assimilata nel tessuto sociale. A quel punto, seguendo lo spunto offerto dai Los Saicos, non rimane che demolire tutto e ricostruire, ancora una volta, mescolando passato e presente.
Foto di Federica Di Giovanni
-
Articolo precedente
« Indian Summer: non fidatevi delle oche