In principio era la “gentry”
A scatenare il cambiamento nel percorso evolutivo urbano è il cosiddetto ceto emergente. Come sottolinea l’Accademia della Crusca, il termine originario “gentrification” ha iniziato a circolare in Italia tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila. In Italia la prima a usarlo è stata l’autrice Rita Querzè in relazione a quella milanese, che negli ultimi anni ha visto coinvolti quartieri come Isola, Brera e i Navigli. I toni, quando si parla di gentrificazione, sono prevalentemente critici poiché comporta lo “sfratto” dei vecchi residenti a favore di quelli nuovi, i cui portafogli sono più pieni. Lo stesso fenomeno accade, con impatto diverso, in ogni parte del mondo e si può riscontrare anche in Italia. Nel quartiere di San Frediano a Firenze così come a Roma, al Testaccio, al Pigneto o a San Lorenzo, fino a Torino, a San Salvario. La parola così come la utilizziamo oggi, nella sua versione italianizzata, è entrata a far parte del lessico corrente anche in forma verbale (sempre come calco dall’inglese) e negli ultimi anni si utilizza in maniera sempre più insistente, spesso senza che se ne conosca il reale significato.
Il fenomeno si avverte ancora di più negli USA dove il quartiere, nel passaggio da popolare a borghese, diviene terreno di scontro tra bianchi e neri. Diventa così una questione sociologica che coinvolge le varie etnie, presenti in densità più o meno consistenti, che vengono “spodestate”. Storicamente questi cambiamenti nelle città sono sempre avvenuti: i ricchi annoiati che si spostano verso la campagna e i centri che i svuotano; passato qualche tempo, i ricchi decidono di tornare in città e il ciclo si ripete. Phillip L. Clay nel libro “Neighborhood Renewal” (1979) parlava di quattro stadi della gentrificazione: il primo vedeva protagonisti i pionieri del fenomeno, artisti dalle inclinazioni bohémien a caccia di affitti bassi; il secondo step prevedeva che la classe media ne seguisse le orme, al terzo punto il numero dei nuovi arrivati superava quello dei residenti originari. Per finire, a cambiamento avvenuto, gli artisti responsabili del rinnovo del quartiere ripartivano a caccia di nuove avventure. Peter Moskowitz nel 2017 in “How to kill a city” suggeriva l’aggiunta di un quinto stadio, concentrato sulla questione immobiliare, che di solito è la prima associazione che viene fatta con la gentrificazione. La prima ondata di questo processo negli USA è stata riscontrata subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, con lo sforzo di rigenerare le aree urbane. La seconda ondata ha avuto inizio negli anni Ottanta ed ogni volta si ripete lo stesso effetto collaterale, il più discusso: l’esclusione di alcune classi sociali a favore di altre.
Effetti collaterali: leggere attentamente il foglietto illustrativo
Le conseguenze della gentrificazione sono varie e sfaccettate: non si può ridurre tutto a una critica cinica e negativa così come non si può essere completamente ottimisti. Il professore di sociologia Giovanni Semi ha parlato della “Disneyland delle grandi città” e della globalizzazione estetica e culturale che le contraddistingue. L’uniformità, nell’estetica così come nella proposta economica, si riscontra nello spuntare di piccole caffetterie e gelaterie artigianali dai colori pastello, negozietti vintage ed eventi tendenzialmente underground. Anche in questo caso risulta una descrizione piuttosto riduttiva, dietro c’è molto altro. Basti pensare alla crescita di Brooklyn nell’ultimo decennio: quello che prima era considerato un posto quasi da evitare, conosciuto dai più per la presenza del celebre ponte, oggi pullula di coffee shop e gallerie d’arte, è il punto di riferimento degli intellettuali e di chi è alla ricerca di uno stile di vita alternativo che, di fatto, finisce col dettare tendenza. Lo stesso si può dire di San Francisco: nel quartiere Castro sono passati finlandesi e irlandesi prima, gli omosessuali dopo e i “nerd” della Silicon Valley oggi. Si tratta dell’effetto della “creative city”, i borghesi annoiati sono alla ricerca continua di nuovi stimoli e si stabiliscono nei punti urbani in cui se ne trovano di più. Una volta esauriti gli spunti, si muoveranno altrove e tutto ricambierà, dal punto di vista estetico e sociologico, si svuoterà per poi riempirsi ancora e ancora. L’antropologo Franco La Cecla, riferendosi all’insediamento della comunità omosessuale a Castro avvenuta negli anni Ottanta, ha parlato di un “upgrading che elimina le opportunità che un quartiere povero e popolare offre a chi ci sta” (Quartiere è potere, La Repubblica, 2002). Lo stesso autore sottolinea le contraddizioni di una borghesia che “vuole i locali ma non vuole essere disturbata nel sonno, […] vuole la multietnicità ma ne ha paura”. La gentrificazione, secondo La Cecla, risponde all’esigenza di rendere le città più vivibili, in una continua “dialettica tra rinnovamento urbano e conservazione sociale”. Seguendo le sue parole, se da una parte è vero che non si possono abbattere tutte le critiche, dall’altra è vero che è possibile avvicinarsi a un punto di equilibrio. “Le città sono creative e furbe se mantengono quel condensato di vita sociale informale autoprodotta” e quando tengono conto della compattezza e della densità sociale che vanno a costituire quella che lui chiama “mente locale”. Non bisogna mai dimenticare, inoltre, che ogni città ha una propria identità, forgiata in ogni suo punto da chi la vive e la modifica giorno per giorno. All’interno di questa evoluzione si apre un argomento vastissimo, che potrebbe aprire a sua volta conversazioni costruttive e che ruota anche attorno al cibo.
La food gentrification
Il cibo ha il grande potere di riunire le persone, ecco perché funziona sempre. La gentrificazione nel cibo, soprattutto negli Stati Uniti, si scontra con le accuse di appropriazione culturale da parte di questa o l’altra etnia. Spesso va di pari passo con la globalizzazione: i piatti tradizionali etnici hanno suscitato l’entusiasmo dei cosiddetti foodies, curiosi di scoprire (e fotografare) i sapori di dumplings, burritos e altre specialità. Il confine rimane sempre sottile e il rischio di sminuire il bagaglio culturale di intere nazionalità è sempre molto alto. L’argomento, come già detto, si può analizzare sotto molteplici punti di vista ed è stato posto come una questione di mancanza di sensibilità da parte di Sarah Jones. In un articolo pubblicato su The New Republic nel gennaio 2018, la scrittrice del New York Magazine ha parlato del fenomeno del consumo di “raw water”, acqua al naturale, recuperata e non trattata. Una tendenza un po’ new age che la Jones ha definito come un atto di “gentrificazione della povertà”. L’acqua non trattata è pericolosa da consumare, oggi due galloni e mezzo di raw water costano 36,99$. “Quando la gente beve acqua non trattata, di solito è perché non ha niente da bere” ha scritto la Jones, sottolineando di come un gesto solitamente disperato, che compie chi non ha alternative, sia diventato cool e instagrammabile.
Per dirla à la Nanni Moretti, “le parole sono importanti” e tutto può essere gentrificato in base a come viene presentato: appunto, vivere su una roulotte può essere l’esperienza che ti renderà la nuova star di Instagram, soprattutto se segui una dieta a base di Soylent e usi bene le frasi a effetto. La food gentrification fa al cibo quello che la normale gentrificazione ha fatto agli immobili: ha fatto salire alle stelle prezzi di materie prime che venivano considerate normalissime e perfino povere. Negli USA è anche una questione di scontro tra bianchi e neri, la stessa che ha portato la femminista attivista Mikki Kendall, tra le prime a contestare il fenomeno lanciando sui social l’hashtag #foodgentrification. Con la propensione a cercare uno stile di vita sempre più sano, l’attenzione è ricaduta su ingredienti semplici, finiti nel mirino dei gentrifiers per subire un’impennata nei prezzi. Ciò che prima era accessibile anche alle fasce di popolazione più basse, ora non lo è più. “Mia nonna riusciva a ricreare piatti deliziosi usando solo le frattaglie” aveva dichiarato la Kendall, ben consapevole del fatto che gli ingredienti usati un tempo dalle nonne oggi sono diventati gourmet. L’aumento dei prezzi ha causato anche un cambiamento nelle abitudini alimentari delle fasce povere della popolazione, generando anche quella che viene chiamata food insecurity. Ingredienti come il burro di arachidi, legumi e riso, sono stati riscoperti e rivalorizzati – nel senso più economico del termine. In Italia, tuttavia, l’effetto “mainstream” è pur sempre limitato, se comparato al fenomeno statunitense.
L’abilità (di una città e di chi la fa), per tornare a quanto sostenuto da La Cecla, è quella di saper trovare il giusto equilibrio. C’è un confine da non superare ed è l’abilità nel rispettarlo che fa la differenza: chi vuole i colori e i sapori dell’etnico deve essere effettivamente in grado di rispettare la multiculturalità e saperla abbracciare. La gentrificazione è per definizione esclusiva e diventa inclusiva quando l’offerta vale per tutti: è qui che entra in ballo il cibo. Chi ama valorizzare la tradizione e gli ingredienti poveri, con lo sguardo attento dell’ecologista e l’expertise di chi fa la lotta agli sprechi, chi dagli scarti crea capolavori d’alta cucina, può non cadere nella trappola del criticismo anti-gentrificazione. Restituire qualcosa di buono e autentico a una città – riqualificarla senza snaturarla e renderla accessibile a tutti – è ancora possibile.
Foto di Federica Di Giovanni
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