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Eat like a beat

Postato il 14 Ottobre 2019 da Elide Messineo
Il libro che lo aveva reso celebre parlava della strada, trasformandosi in una metafora di vita e nel simbolo di quella che si chiama la beat generation. A chiederglielo, lui ti rispondeva che la beat generation era un gruppo di bambini all’angolo della strada che parlano della fine del mondo. Un mondo che, alla fine degli anni Cinquanta, si stava riprendendo dagli orrori della guerra e aveva lasciato una generazione orfana di valori. La gioventù bruciata di cui si parlava non aveva il bel faccino limpido e furbetto di James Dean, ma le facce sporche dei beat e la puzza di alcol scadente rimasta impregnata sui vestiti dei poeti che decantavano i loro versi alle due del mattino in locali nascosti nei vicoletti di Manhattan, nel sottoscala di una bettola di New Orleans, nelle strade desolate della notte che si portava via i loro pensieri.

Beat come battere, percuotere, beat come battuto, deluso, avvilito. Da quello che c’è stato prima, senza sapere che dopo non cambierà niente. La beat generation sulla spiaggia di Venice canta, balla e non ci pensa, non pensa a niente, perché tutto ciò che sogna è la libertà e tutto ciò che vuole se lo prende, senza sapere che a volte – anzi sempre- c’è un prezzo da pagare. La beat generation sulla spiaggia di Venice non sa che ora è, parla dell’ultimo libro di Jack Kerouac, quel folle che girando l’America in lungo e in largo ha mangiato per settimane sempre e solo una cosa: la torta di mele con gelato che, dice lui, man mano che ti addentri nell’Iowa si fa sempre più buona e a volte di fronte al potere di una apple pie non c’è Buddha che tenga. Soprattutto quando hai le viscere moribonde, il corpo dilaniato dalla bottiglia, corrotto dalla droga e cammini da settimane con i vestiti laceri senza sapere bene dove andare con una sola confezione di carne essiccata in tasca. La beat generation sulle strade del Village non sa che ora è né quale sia la direzione da prendere, tra un whiskey, un caffè e un po’ di mescalina si ripete che quello è il modo migliore di vivere la vita senza avere in agenda l’appuntamento per la fine del mondo. Di lavoro non si può morire, bisogna meditare, ascoltare l’universo, professare l’amore libero e farne tanto, liberamente, provare tutte le esperienze possibili, assaggiarle dalla punta delle dita, portandole a tutta velocità schivando le buche sulla 66 che quella, prima o poi, da qualche parte ti porta sempre anche quando non si vede dove va a parare. Le migliori menti di un’intera generazione distrutte dalla pazzia, Dean Moriarty che mi viene in mente mentre me ne sto sul vecchio molo diroccato e la beat generation tra le strade di Lowell ascolta bebop, Jack cerca la stessa musicalità nelle parole che scrive, tra i tasti rotti e consumati di una macchina da scrivere da restituire all’ultima amante. Ci sono giorni che, in preda all’euforia e tutto il resto, scrive intere bobine di roba e nemmeno lui ci crede che diventerà un dio della rivoluzione culturale di quei beatnik stanchi dalla guerra che non sanno ancora quando il mondo finirà ma parlano di come accadrà, perché prima o poi succederà e quando succederà loro non vorranno etichette nè medaglie addosso. La loro religione si è sgualcita, hanno gli occhi illuminati, quei vagabondi del Dharma, e scrivono e mangiano e mandano la loro coscienza di qua e di là, finendo le loro bottiglie di scotch. Si guardano allo specchio, i beatnik con le scarpe rotte, non si ricordano più quale sia l’indirizzo di casa, si scrivono lettere e dichiarazioni d’amore tra poeti, si prendono a botte e coi nasi sanguinanti parlano insieme di andare contro il sistema, sentono arrivare qualcosa, un odore di rancido che sale dai sotterranei di Frisco e passa per i piatti sulle tavole imbandite degli anni Sessanta nelle case delle famiglie borghesi laccate e in ascesa. Si sente un fragore e nemmeno troppo lontano, c’è un falò di indecisione, ribellione malriposta, un respiro preso di sghembo, per il verso sbagliato, dopo la lunga, lunghissima guerra e c’è un urlo disperato e rabbioso lancinante nel rosso che arriva e poi subito svanisce, nell’alba del millenovecentosessantotto.