Alfred Hitchcock, la suspense è da gourmet
“L’uomo non ha bisogno soltanto di delitti, ha bisogno anche di pasti abbondanti” diceva il buon vecchio Alfred. Se pensiamo a un pasto abbondante sul grande schermo l’associazione con Alberto Sordi che mangia il piattone di spaghetti in “Un americano a Roma” (Steno, 1954) sorge quasi spontanea. In questo caso il cibo si fa simbolico, racconta un Paese, una società e una classe sociale specifica. I piatti mostrati sul grande schermo determinano delle identità e la prospettiva dalla quale il cibo viene osservato, che cambia a seconda dell’epoca. Cinematograficamente parlando, per esempio, junk food equivale a una condanna a morte (tranne che in alcuni casi, come Quentin Tarantino e chiunque altro lo usi per raccontare delle realtà effettive, esistenti e innegabili). Nel caso di Hitchcock, invece, il cibo è sempre di alta qualità e mai una scelta casuale, anche quando in apparenza lo sembra. Il regista era ossessionato dal cibo, arrivava a soddisfare i suoi sfizi più assurdi, si faceva spedire le sogliole di Dover fino a Hollywood insieme al sidro di St. Moritz a lui tanto caro, come anche il soufflé d’aragosta parigino.
Ci sono libri e libri di ricette dedicati a personaggi di film, ai film stessi, ai registi o agli attori, la documentazione è così vasta che ci si potrebbe perdere e Alfred Hitchcock ha contribuito a far accrescere notevolmente questo tipo di materiale. Nelle sue opere troviamo whiskey, brandy, cioccolato, bistecche e champagne, le quaglie all’uvetta di “Frenzy” (1972) o il picnic sofisticato di “Caccia al ladro” (1954). Praticamente in tutte le scene più importanti dei film del regista londinese, passato alla storia come il maestro del brivido: ne “Il sospetto” (1941) Cary Grant porta del latte – forse avvelenato – a Joan Fontaine; in “Psycho” (1960) l’ultima cena di Janet Leigh è un semplice sandwich mentre ne “La finestra sul cortile” (1954) dove dominano il voyeurismo e una cena molto elegante (ma non come quelle di Silvio Berlusconi). La passione per il cibo di Alfred Hitchcock era talmente smisurata che nella celebre intervista che rilasciò al collega François Truffaut dichiarò che avrebbe voluto girare un film interamente incentrato sul mangiare*.
Figlio di padre grossista di frutta e verdura, il regista sviluppò un particolare rapporto con il cibo fin dalla sua infanzia. Uno dei suoi traumi infantili riguarda la scoperta della madre intenta a sostituire due giocattoli nella sua calza di Natale con due arance. Lui, quindi, si ritrovò con della frutta al posto dei giocattoli che andarono a favore dei fratelli. “L’amore nasce dal bisogno, soddisfatto, di cibo“: l’approccio freudiano con il cibo di Hitchcock dipende spesso da eventi ricollegabili alla sua infanzia. Una volta il regista rimase solo a casa con la domestica, era domenica sera. Una volta diventato adulto e dopo aver costruito una famiglia, la sua esigenza principale della domenica divenne quella di trovare sempre un pasto caldo e soprattutto quella di non lasciare mai da sola la figlia Pat.
Dal modo in cui Alfred Hitchcock trattava il cibo nei suoi film si possono cogliere anche le sue preferenze: di certo non amava le uova (in “Caccia al ladro” una sigaretta viene spenta in un tuorlo), mentre lo champagne rientrava tra le sue bevande preferite e compare spesso. Alida Valli, che lavorò con lui ne “Il caso Paradine” (1947) raccontò di come il regista inglese amasse stare ai fornelli, a volte per sperimentare ed usare i suoi ospiti come cavie e magari regalare un po’ di suspense anche a tavola, con il sospetto che qualche pasto potesse essere avvelenato, proprio come nei suoi lavori.
* “Voglio tentare di filmare una antologia del cibo. L’arrivo del cibo nella città. La distribuzione. L’acquisto. La vendita. La cucina. L’azione del mangiare. Ci che accade al cibo nei differenti tipi di albergo e come viene sistemato e consumato. Gradualmente, verso la fine del film, ci saranno i tombini e le immondizie che vanno a scaricarsi nell’oceano”.
-
Articolo precedente
« Che sapore ha la felicità