Cucina povera, arte e semplicità
Nel mondo dell’arte il cibo è sempre stato presente fin dai tempi più antichi: fattore base della vita dell’uomo, c’era già ai tempi dei Greci, nella xenia, che riassume il concetto di ospitalità di quel mondo antico. I greci avevano grande rispetto per gli ospiti e il padrone di casa al momento dell’addio usava fare un dono, che spesso consisteva in un quadro raffigurante frutta o cibo.
Il concetto di ospitalità dall’antica Grecia, passando per il mondo delle osterie, oggi è decisamente cambiato, ma l’importanza del cibo rimane essenziale.
Di epoca in epoca sono cambiati gli stili ma ritrarre il cibo è una pratica che non è stata mai perduta. Che si tratti del racconto dell’Ultima cena e altre scene bibliche come Le nozze di Cana (Leonardo Da Vinci, Caravaggio, Tintoretto, sono solo alcuni esempi) oppure de Il Mangiafagioli e La bottega del macellaio di Annibale Carracci o La vecchia che frigge le uova di Velazquez, la semplicità e la povertà acquisiscono un ruolo sempre più centrale fino ad arrivare al consumismo di massa – che riporta ad un nuovo concetto di “semplice” in cui la scatoletta di zuppa non è di certo un alimento destinato all’alta borghesia – abbondantemente raccontato nelle opere serigrafiche di Andy Warhol e nella popart. Spesso e volentieri sono le scene del quotidiano, le realtà più miserabili, ad attirare l’attenzione dell’artista. Nell’opera di Van Gogh si può riscontrare un chiaro interesse nei confronti della vita contadina, una delle opere più famose del pittore è senza dubbio quella de I mangiatori di patate (1885): una famiglia di contadini seduti a tavola consuma un piatto misero, delle patate appunto, risultato delle loro fatiche. Nell’arte di Van Gogh diventa anche un simbolo di denuncia, l’impoverimento della campagna agli albori dell’industrializzazione, la fatica del contadino che mangia ciò che produce. Nelle opere del pittore olandese si trovano molti riferimenti alla povertà non solo negli oggetti d’arredamento ma anche negli alimenti: cipolle, pere, le aringhe, tutto esalta la fatica e il lavoro manuale, il rapporto incessante che intercorre tra l’uomo e la natura.
Nell’epoca del consumismo la cucina povera continua a mantenere il suo valore, rimane ancorata alle tradizioni tramandate dalle nonne, rivisitate in maniera “chic” dagli chef professionisti. Il cibo povero, per quanto possa suonare paradossale, costituisce una ricchezza. Mangiare bene spendendo poco oggi è una conseguenza della crisi economica ma anche della filosofia che sta alla base dello street food, tendenza dilagante di questi ultimi anni. Solo parlando dell’Italia, da Nord a Sud, si conoscono moltissime realtà che esaltano i pasti della cucina tradizionale, di derivazione contadina, comunque da sempre considerati poveri.
In Toscana ci sono trippa e lampredotto, in Emilia Romagna la piadina, il casatiello napoletano che viene mangiato a Pasqua è un altro esempio, così come la porchetta o le olive ascolane e gli arancini. Tutti piatti che godono di grande diffusione e gradimento sia nelle sfere alte che quelle più basse della società. Il cibo concilia tutti, ricchi o poveri che siano, perché per creare piatti raffinati e sfarzosi non sempre sono necessari ingredienti dai costi elevati, ed anzi sono i prodotti più semplici e genuini che, se esaltati nella maniera corretta, vengono apprezzati maggiormente.
Sempre in questi ultimi anni stiamo assistendo anche ad un altro tipo di ritorno alle origini, quello del rispetto della stagionalità, del territorio e dei tempi della natura. Pane, pomodoro, uova e marmellate sono elementi che esistono da sempre nel mondo culinario, sono presenti in ogni cucina, da quella della massaia a quella dell’imprenditore, che come i suoi subordinati non può disdegnare di certo una frittata saporita o un gustoso piatto a base di legumi.
Gli ingredienti possono non cambiare ma cambia l’utilizzo che se ne fa così come le tecniche di preparazione, eppure si sente sempre la necessità di rimanere legati alle radici. Serve la conoscenza basica per procedere con l’innovazione ed in qualunque caso il cordone ombelicale che ci lega al passato – contadino, povero, rispettoso dei cicli stagionali – non si può in alcun modo recidere. Non si può cancellare una memoria millenaria in un nome di un progresso che, checché se ne dica, non avrebbe modo di esistere senza un pregresso.
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