Dante, peccati di gola e cibo per l’anima
Nella cucina medievale non c’erano a disposizione tutte le pietanze che conosciamo oggi né tutti i mezzi per poterle conservare. Allora si usavano alcune tecniche come l’essiccazione, l’affumicatura o la fermentazione e poi si faceva un ampio uso di sale, spezie, aceto e limone, tutti ingredienti che aiutavano a conservare il cibo per più tempo. La varietà di alimenti tuttavia era ridotta (ancora non si conoscevano patate e pomodori, per esempio) e, vista la forte impostazione gerarchica della società, erano i ricchi a potersi permettere i pasti più variegati, i più fortunati riuscivano a conoscere anche gli alimenti provenienti dall’estero ma per la maggior parte l’alimentazione si basava sulla presenza di cereali, farine, formaggi, frutta e verdura. La carne era un’altra concessione per i più abbienti, ma nell’epoca in cui la Chiesa dominava incontrastata, c’era anche una certa attenzione al consumo delle carni, vietato o limitato a seconda dei periodi. Nel 1300 hanno fatto la loro comparsa anche i primi libri di ricette, si è accresciuta l’attenzione verso le buone maniere a tavola e nella Firenze logorata dalla guerra tra Guelfi e Ghibellini tutta la ricchezza veniva investita nelle armi. Fu in quel periodo che comparvero ricette come quella della ribollita o della fettunta e il castagnaccio, piatti apprezzatissimi ancora oggi.
Sulla vita di Dante non ci sono informazioni precise e dettagliate e per questo nel corso del tempo il personaggio è diventato sempre più affascinante. Il padre della lingua italiana non usava legare i concetti di fame e cibo solamente al mondo terreno, la fame eccessiva che portava al peccato di gola era considerata un eccesso dell’impulso del nutrimento. Nel Paradiso il concetto di cibo infatti è completamente dissociato dalla sfera terrena, perché lì la fame è qualcosa di inconcepibile, di inesistente. Dal punto di vista dei golosi, quindi, l’inferno non è poi così male.
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