Don Pasta: “Il grunge è pasta e fagioli”
Lo abbiamo incontrato in occasione della sua esibizione al Mercato Centrale e abbiamo fatto due chiacchiere. La prima domanda riguarda tre piatti molto diversi tra loro ma molto amati dalla gente, gli abbiamo chiesto di associare delle canzoni a un piatto di bucatini all’amatriciana, al sushi e al kebab:
L’amatriciana è i Rolling Stones, Sympathy for the devil, perché è è un po’ piccantina. Per quanto riguarda il sushi, sono contrario alla moda, altrimenti mi piace come qualsiasi piatto. Non mi piace il modo in cui se ne parla, se si pensa al sushi come cultura millenaria non serve un brano superficiale, andrebbe bene una cosa molto classica per rispettare la sua storia: mi viene in mente Ryūichi Sakamoto, magari qualche brano della sua collaborazione con David Sylvian. Il kebab mi piace di più! E ci metterei Rachid Taha, cantante magrebino che viene dal punk e lo ha unito alla sua cultura senza alterarne l’essenza e il brano sarebbe “Rock El Casbah”. Tutto dipende da come si fa, dai prodotti che si usano, il kebab può essere terrificante o molto buono e soprattutto offerto con passione.
Dopo i brani da abbinare ai piatti, i sapori da abbinare ai generi musicali techno e grunge. E su quest’ultimo, preso dall’entusiasmo, Don Pasta ha tirato fuori una vera e propria perla:
Se hai una techno minimal o quelle fatte a Detroit – che hanno un lato molto intellettualoide – secondo me può essere anche avvicinata alla cultura della cucina nuova come la molecolare. Entrambe sono espressione dell’attualità e sono al passo con i tempi, rispettano i rumori o le tecnologie attuali. Il grunge è il mio amore e ritorniamo alle cucine del Sud Italia: il grunge è pasta e fagioli.
Don Pasta si definisce un “gastrofilo militante“, ma cosa vuol dire esattamente? Cosa fa?
Ho cominciato nel 2000 a essere Don Pasta e partivo dalle lezioni che avevo imparato da mia nonna. Quando parlo di militanza del cibo non voglio riferirmi alle teorie classiche, come lo slow food, anche se sono molto importanti. La cosa che mi ha colpito è stato il fatto che si rischiasse di perdere la lezione storica della cucina mediterranea, tutte le cose che un tempo la gente conosceva e sapeva senza distinzione di classe sociale. La gente comune aveva a sua disposizione tutte le regole possibili per mangiare correttamente e rispettare la terra e il mare.
Tra i numerosi progetti di Don Pasta c’è stato quello della “scuola alimentare“, un modo per educare i più piccoli sul cibo. Ma oggi si parla di cibo un po’ dappertutto e non sempre nel modo corretto. Tra “food porn” che impazza sui social, reality e talent show, non si rischia di parlarne troppo e anche male?
La moda del cibo da un certo punto di vista è eccezionale se si pensa che dieci-quindici anni fa l’Italia, come tutto il mondo, stava diventando la patria di McDonald’s e dei surgelati. Un’attenzione morbosa al cibo e alla cucina ultratecnica permettono di avvicinarsi a fare più attenzione alle cose ma c’è sempre il prezzo da pagare. Il messaggio che la comunicazione dei media vuole far passare è molto più superficiale, la mia paura più grande è che di fondo, nonostante questa attenzione al mondo del cibo, scompaia la memoria.
Negli ultimi anni c’è stata un’esplosione di vegani, vegetariani, fruttariani e derivati. Cosa ne pensa Don Pasta, sarà solo una moda?
Secondo me e un argomento po’ più complesso e non è solo una moda. Mi ritrovo spesso a parlare e discutere con vegani, vegetariani o animalisti e tutti sono figli di un animalismo esasperato.
Fuori dall’Italia la gente mangia in quantità smodata la carne o ha un’attitudine ultracapitalista rispetto al consumo del cibo. Io mi riferisco alla cultura mediterranea popolare, all’uso morigerato della carne e del pesce. La povertà permetteva di avere allo stesso tempo una cultura molto fantasiosa, creativa ma elementare e senza sprechi.
Tra libri, musica e viaggi, Don Pasta sembra aver trovato la ricetta per la felicità. È così?
[Ride] Uno può stare pure seduto in un luogo e non muoversi mai ed essere felice. Sicuramente per me è una ricetta per cercarsi la libertà, più che felicità.
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