L’arte è donna
Come Artemisia, molte altre donne hanno usato l’arte come strumento comunicativo per rivendicare i propri diritti, in difesa del proprio corpo e della propria libertà espressiva. Dall’epoca di Cosimo dei Medici sono occorsi svariati secoli, arrivando alle avanguardie europee del Novecento, prima che le donne potessero davvero affermarsi in questo ambito e mai senza difficoltà. Una delle figure che ha dovuto attendere a lungo un riscatto a tutto tondo è stata quella di Natalia Goncharova, la pittrice russa dalla personalità eclettica e misteriosa. La sua arte mette insieme modernità e tradizione popolare, la madrepatria con la città che l’ha accolta tra le sue braccia, Parigi, capitale degli artisti par excellence. Dopo i fatti del 1917, la Goncharova decise di non fare più ritorno in Russia, lasciandosi definitivamente influenzare dall’arte occidentale e dall’affermarsi delle avanguardie. Tra le sue frequentazioni, per esempio, non mancavano i futuristi. Natalia Goncharova è stata una figura scandalosa, la prima artista ad esporre nudi femminili. La cosa le costò un processo per pornografia e offesa alla morale pubblica ma questo, nel suo ambito, non fece che consolidarne la fama. Destare scandalo, far parlare di sé, è uno dei più potenti strumenti dell’arte, spesso funzionale per riportare l’attenzione su uno specifico argomento. Lo sa bene Marina Abramovic, volto indiscusso della performance art.
Da Gina Pane alla pittura aborigena
Lo sapeva molto bene anche Gina Pane, sovversiva e scandalosa quanto basta, che tramite la sua arte si è battuta per protestare contro la condizione della donna – oltre che per altre ingiustizie sociali. La Pane considerava il dolore un sentimento universalmente condivisibile, poiché tutti possono provarlo; per questo motivo è sempre stato al centro delle sue performance, lei stessa se ne faceva portatrice. La sua opera più nota è “Azione sentimentale” ma in altre performance Gina Pane si è inflitta delle ferite, come ne “Il bianco non esiste” per ribaltare i canoni estetici legati al mondo femminile. Quello che per molti sembrava autolesionismo, era per Pane un atto di ribellione, una dimostrazione concreta della fragilità del corpo. Quest’ultimo è stato spesso fondamentale nell’arte di Yoko Ono, conosciuta in tutto il mondo sia come storica compagna di John Lennon sia che per il suo essere una fervente attivista. Nel 1965 Ono ha dato vita alla performance “Cut Piece” in cui gli spettatori potevano interagire con lei tagliando parti dei suoi vestiti. Un visitatore dopo l’altro, Yoko Ono rimase quasi nuda, riuscendo nell’intento di raccontare e denunciare la percezione diffusa del corpo della donna. Yoko Ono rimane tutt’oggi una delle più importanti esponenti della body art. Nel mondo dell’arte, però, c’è chi non si è limitato a mettere a disposizione “solo” il proprio corpo ma anche la propria identità e la propria esperienza. Sophie Calle ha sempre manifestato un approccio voyeuristico all’arte, dove l’esperienza autobiografica si fonde e si confonde con quella di chi interagisce con l’opera, di chi ne è al contempo spettatore e parte integrante. “Les dormiens” del 1979 è considerata la sua opera di debutto: svariate persone, tra sconosciuti ed amici, sono state invitate a dormire nel suo letto. La performance si è svolta per otto giorni senza interruzione, ogni otto ore i partecipanti si davano il cambio e si prestavano ad essere osservati e fotografati dalla Calle. L’artista è nota per aver raccontato la sua vita attraverso le storie degli altri, mettendo in discussione e sotto diverse prospettive il concetto di identità, a partire dalla sua. Nelle sue opere è sempre prevalente la dimensione intima e l’impatto emotivo risulta molto forte (come in “Voir la mer”): ruoli e concetti vengono continuamente ribaltati, come quando la Calle si fa inseguire da detective privati o insegue ella stessa degli sconosciuti per le vie di Parigi o quando si cala nei panni degli altri, svolgendo diversi mestieri o, ancora, quando fa leggere la lettera d’addio ricevuta da un ex compagno a 107 donne diverse – con le conseguenti chiavi interpretative. Molti altri potrebbero essere i nomi di donne che hanno dato il loro contributo e che non hanno avuto timore di lottare contro i pregiudizi, la sottomissione e per i propri diritti, da Betty Blayton-Taylor a Hedda Sterne, Carole Schneemann, Dadamaino, Kay Sage, Dora Maar e Tamara De Lempicja, celebre per i suoi dipinti art nouveau di donne sempre ritratte in pose molto sensuali. Ana Mendieta è stata una delle prime (oltre che poche) artiste latine ad arrivare negli USA negli anni Settanta. Arrivata da Cuba a soli 13 anni, è stata una delle protagoniste della body art e della land art: la sua arte esotica è stata influenzata dalla santeria cubana e da una forte impronta femminista. Un episodio che ha contribuito allo sviluppo del suo linguaggio artistico è stato sicuramente lo stupro e l’assassinio di una studentessa del campus in cui studiava anche lei, dal quale trasse ispirazione per l’opera del 1973 “Untitled (rape performance)”. L’arte è stata una forma di protesta importantissima anche per donne come Glorya Petyarre, Narputta Nangala e Emily Kame Kngwarreye che, in particolare grazie alle loro tele di seta batik, hanno messo in risalto non solo la pittura aborigena ma la condizione dell’intera comunità in Australia. La pittura, dopotutto, è sempre stata fondamentale nella storia e nella tradizione delle comunità aborigene australiane, ritrovatesi cacciate ai limiti dei loro stessi territori. Alcune esponenti, principalmente provenienti dalla comunità di Utopia, sono riuscite ad oltrepassare i confini australiani, facendo conoscere la loro storia e quella della loro gente in tutto il mondo, proprio grazie al valore delle loro opere.
Non è stata un’artista in senso stretto ma ha dato un contributo immenso al mondo dell’arte Peggy Guggenheim. Innamorata di Venezia, dove tutt’oggi si trova la sua collezione a Palazzo Venier dei Leoni, è stata fondamentale per mettere in risalto le avanguardie artistiche di inizio Novecento. Sempre eccentrica, come da manuale, Peggy Guggenheim non era un’estimatrice della pop art – a causa della quale iniziò a perdere interesse nell’arte – fu invece un vero e proprio trampolino di lancio per Jackson Pollock in Europa. Dopo il matrimonio con il dadaista Laurence Vail è stata compagna del surrealista Max Ernst, ha raccontato di aver avuto migliaia di amanti e c’è chi ancora la ricorda tra le calli veneziane accompagnata dal suo mini esercito di inseparabili Lhasa Apso. Dietro i suoi grandi occhialoni si nascondeva una vita travagliata che, come spesso è accaduto e sempre accade, viene celata dietro atteggiamenti fuori dagli schemi. Frida Khalo – mai come adesso si è parlato tanto di lei – è stata un’altra artista la cui vita è stata costellata di enormi sofferenze, tanto quanto quella di Stella Snead, che ha sofferto per tutta la sua esistenza una fortissima depressione. L’arte ha permesso a queste donne di trovare una valvola di sfogo e di creare dei simboli e un linguaggio sempre nuovo tramite i quali comunicare il proprio dolore, senza più paura.
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