Assenzio: dal vermouth alla follia in bottiglia
L’assenzio, gentile o romano, è l’ingrediente base del vermouth. Il vino aromatizzato non ha le stesse proprietà della fata verde che un tempo – prima dell’avvento del decadentismo – veniva utilizzata per curare malaria e febbre. Il vermut torinese è nato nel 1786 nella liquoreria Marendazzo di piazza Castello. Antonio Benedetto Carpano allora era solo un garzone di bottega: unendo il moscato di Canelli, erbe aromatiche e spezie, trovò la sua fortuna. Tutt’oggi il vermouth torinese ha gusto patriottico, la sua preparazione richiede regole più restrittive rispetto alle altre tipologie, soprattutto per quanto riguarda la provenienza dei vini impiegati. La storia vuole che Re Vittorio Amedeo III rimase così colpito dal gusto del vermut che decise di bloccare la produzione di rosolio. Il successo internazionale della bevanda è avvenuto proprio grazie alla ditta Carpano. In seguito, negli anni ’50, grazie all’avvento della pubblicità la ditta vide esplodere la popolarità del marchio grazie al genio di Armando Testa, che aveva ideato la figura di Re Carpano. Oggi, però, è Martini ad essere automaticamente associato al vermouth, al punto da essere ormai utilizzato come sinonimo.
L’abitudine di far macerare i fiori con le erbe nel vino risale a tempi molto antichi ed era diffusa anche all’epoca di Ippocrate. Varianti del drink esistono anche in altri Paesi, su tutti la Catalogna, che ha fatto dell’aperitivo col “vermu” un vero e proprio stile di vita – l’equivalente dello spritz in Italia. La produzione si concentra in particolare nella provincia del Falset (Farragona). Si beve nelle bodegas, affiancato da un ricco piatto di patatas bravas, magari tra i vicoli di Reus; la città natale del grande Gaudì è infatti considerata la capitale del vermut catalano.
Dalle cure all’arte – tutto in una bottiglia
A proposito di artisti, l’alcol è spesso utilizzato come fonte di ispirazione. Anche se l’ingrediente principale di questo “vino conciato”, il vermouth, è l’assenzio, gli artisti hanno sempre apprezzato molto di più il suo distillato. La bevanda ha ottenuto una certa popolarità quando ha iniziato ad essere associata allo stile di vita bohémien. Pare che i soldati francesi usassero l’assenzio per disinfettare l’acqua durante la guerra in Algeria, ma al loro ritorno trovarono un’abitudine ormai diventata popolare. Ad inventare l’elisir è stato il dottore Pierre Ordinaire nel 1792. L’uomo era fuggito dalla Francia della Rivoluzione e aveva trovato rifugio in Svizzera. Usava il prodotto a base di assenzio romano, anice, altre erbe e spezie, per curare i suoi pazienti, principalmente per la tosse e la febbre. La “medicina” si guadagnò così l’appellativo di “fee verte”, la fata verde. La ricetta passò nelle mani delle sorelle Henriod, che a loro volta la passarono al maggiore Dubied. Questi acquistò la formula e la rese celebre creando il marchio Pernod Fils insieme al genero Henri-Louis Pernod. Se il cognome di quest’uomo vi dice qualcosa, è perché anch’esso è diventato ormai un sinonimo della bevanda dal colore verde. Per lungo tempo, fino a quando l’assenzio non fu bandito, furono demonizzati gli effetti del tujone sul sistema nervoso. Si era inoltre diffusa la credenza che si bevesse insieme al laudano – tintura di alcol e oppio. Questa versione fu consolidata dalla diffusione della storia di Jack lo Squartatore ma non è mai stata comprovata l’esistenza di tale abitudine. Se mai c’è stata davvero, è stata prerogativa delle classi più agiate, che avevano accesso al costoso ingrediente aggiuntivo. Il distillato di assenzio, invece, ha iniziato ad essere diffuso tra le classi sociali più basse per poi diventare popolare tra poeti e scrittori. Oggi tutto questo potrebbe tranquillamente rientrare nel fenomeno della food gentrification.
Verlaine, uno dei più noti consumatori di assenzio, ne annotò gli effetti negativi, sostenendo che lo trasformasse in un uomo violento – tratto ben lontano dalla sua indole. La connotazione negativa dell’assenzio, però, arriva da molto più lontano. Già nei testi della Bibbia viene spesso associato a disgrazie e calamità. L’artemisia, infatti, è un’erba particolarmente amara e il suo sapore ha influito non poco dal punto di vista simbolico. Si legge, per esempio, che il Signore in preda all’ira minaccia di punire gli israeliti con assenzio e acqua avvelenata. Paracelso lo utilizzava contro la febbre da malaria, mentre nel Medioevo l’artemisia era considerata un’erba in grado di scacciare il male, forse proprio per la sua amarezza. Lo stesso nome in greco, apsinthian, fa riferimento a questo, infatti significa “imbevibile”. L’artemisia, all’epoca, veniva perfino indossata per proteggere dalla stregoneria. Era, insomma, un rimedio contro molti mali e molti altri ne causò. Ai tempi della dinastia dei Tudor l’erba era utilizzata nella preparazione della purl of England, una birra fatta con foglie i a. maritima menzionata anche da Shakespeare (wormowood ale). Il biologo William Emboden ha documentato un particolare fenomeno avvenuto a Londra nel 1760. Iniziò a circolare la voce che si stava diffondendo la peste dal St. Thomas Hospital e che l’artemisia era un portento per la guarigione. Le vendite schizzarono subito alle stelle, al punto che i venditori di Covent Garden non riuscivano nemmeno ad accontentare tutte le richieste. In seguito si scoprì che il panico era stato scatenato da una stupida diceria, che forse potrebbe essere considerata una forma di marketing ante litteram.
La “bevanda dell’abbandono parigino” divenne particolarmente popolare anche oltreoceano e soprattutto a New Orleans – considerata “la piccola Parigi del Nord America”. Il consumo eccessivo di absinthe portò le istituzioni a porsi delle domande e a valutare la possibilità di vietarne il consumo. Bandire l’assenzio non fu d’aiuto, perché nascevano surrogati o continuava ad essere venduto di nascosto. L’absintismo era diventato una vera e propria piaga sociale in Francia, la bevanda creava dipendenza e provocava un forte deterioramento fisico e mentale. Gli absintheurs dovevano fare i conti con numerosi effetti collaterali, da lunghi stati d’insonnia a incubi, agitazione e disturbi mentali. Degas ne mostrava gli effetti nel celebre quadro “L’absinthe”, ambientato in Place Pigalle, ai piedi di Montmartre, nel regno dei bohémien. L’esoterista Aleister Crowley parla proprio di New Orleans e della celebre Old Absinthe House. Crowley ha scritto un saggio sull’assenzio, sottolineando lo stato di profonda solitudine che il drink causa – lo stesso che si nota facilmente nel dipinto di Degas. Crowley rinomina la bevanda “Green Goddess”, la dea verde e, come molti altri, cita la Green Hour. Sarebbe l’equivalente del nostro happy hour, con la differenza che l’ora dell’aperitivo era fatta di bicchierini d’assenzio e stati deliranti.
Il crollo definitivo della popolarità della bevanda avvenne a causa di una tragedia che si consumò in Svizzera. Il contadino Jean Lanfray nel luglio del 1905, in preda a un raptus causato dall’alcol, uccise la sua famiglia – la moglie incinta e i due figli. L’uomo aveva bevuto molto e aveva mischiato più bevande – dal vino al cognac. Tra queste c’era l’assenzio e, sebbene ne avesse bevuto in minore quantità rispetto alle altre, questo fu sufficiente a renderlo la causa principale dell’accaduto. Al processo, infatti, gli avvocati della difesa sostennero che furono proprio i due bicchieri di assenzio la causa della follia omicida di Lanfray. Nel 1907 l’assenzio fu bandito in Svizzera e negli anni a seguire anche in altri Paesi, inclusa la Francia – che lo proibì nel 1915. Qui l’abitudine di bere assenzio era diventato un vero e proprio problema sociale e di salute pubblica – oltre che un impedimento economico per produttori di vino e cognac. Molte erano le donne, anche particolarmente giovani, che soffrivano di cirrosi epatica ed altri disturbi collegati all’alcolismo e all’absintismo. Il fenomeno venne fatto notare anche in un articolo pubblicato sul New York Times il 23 luglio 1925. Secondo l’autore dell’articolo, le donne a Parigi cercavano in tutti i modi di emulare lo stile di vita degli uomini, volendo apparire più mascoline e altrettanto resistenti all’alcol.
Oggi il distillato conserva il suo fascino principalmente grazie alla letteratura. Un ritorno di popolarità si è avuto a partire dalla Scozia, dove non è mai stato bandito ma dove non ha riscosso lo stesso successo che ebbe in altri Paesi – dopotutto aveva un grande concorrente come il whiskey. Nel 1998 iniziò ad essere incrementata l’importazione dal mercato ceco, tramite la distilleria Hill, che decise di rilanciare il suo nome producendone una sua versione. Il ritorno del fascino in chiave bohèmien è dovuto – almeno in parte – all’attore Johnny Depp. Gli bastò raccontare di un episodio avvenuto sul set de “Il mistero di Sleepy Hollow” per far ricadere l’interesse sulla bevanda. Depp raccontò di aver fatto di tutto per avere una bottiglia di assenzio, che poi condivise insieme allo scrittore Hunter S. Thompson. Grazie a questo episodio i due legarono e diventarono molto amici. Depp fu poi protagonista in “Paura e delirio a Las Vegas”, tratto dal libro dello scrittore – e lo interpretò nel film a lui ispirato “The Rum Diary”, basato sull’omonimo romanzo autobiografico. Allo stesso modo, il cinema ha influito sulla diffusione del bere l’assenzio alla francese. Nel film “Moulin Rouge!” di Baz Luhrmann , in cui la fata verde ha il volto di Kylie Minogue, si vede l’utilizzo del famoso cucchiaino forato e della zolletta di zucchero. Questo modo di consumare la bevanda serve a renderla meno amara ma al contempo rende molto semplice il giudizio sulla qualità del contenuto del bicchiere: se è amaro e necessita di zucchero, non è vero assenzio. Da Hill in poi, infatti, non è insolita la produzione di falso assenzio, spesso la preparazione è a base di oli essenziali. Il distillato comporta costi maggiori e sono pochissime le aziende che oggi lo producono secondo il metodo svizzero, quello originario. Tornando tra le vie di Montmartre o facendo un salto a Bourbon St. a New Orleans, secondo Aleister Crowley ciò che spinge l’artista all’alcolismo è la consapevolezza dell’orrore della vita, che lo porta alla ricerca di un altro mondo. “Tutti i geni sono accompagnati dal vizio”, scriveva, e destinati alla solitudine. Quest’ultima era associata alla competizione tra grandi menti: il genio è destinato a sentirsi solo e nel momento in cui incontra un suo pari non ne è affatto contento ma manterrà con questo una convivenza civile (“there can scarcely be companionship, hardly more than the far courtesy of king to king. There are no twin souls in genius”). La folie en bouteille, questo uno dei tanti appellativi dell’assenzio, oggi non esiste più nella forma che ha segnato buona parte delle opere dei decadentisti ma continua ad affascinare, ammaliante come una fata – verte, blanche o bleue.
Foto di Federica Di Giovanni
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