Donald Trump, il travel ban e il cibo come simbolo della cultura americana
Il giorno successivo, il 28 gennaio, iniziarono le proteste. I Paesi coinvolti nell’ordine esecutivo erano Iran, Iraq, Siria, Libia, Somalia, Sudan e Yemen. L’azione di Trump è legale a tutti gli effetti ed è stata confermata lo scorso dicembre. La Corte Suprema consente al Presidente degli Stati Uniti e al Congresso di regolamentare l’immigrazione e il travel ban voluto da Donald Trump ha suscitato sì molto scalpore ma non era una novità. A riprova del fatto che, sebbene discutibile, fosse legale, è entrato in vigore a inizio dicembre 2017 nella sua terza e ultima versione.
Gli USA sono un Paese che si fonda sull’immigrazione e, almeno teoricamente, sulla democrazia, che però ha subito notevoli scossoni dopo l’elezione di Donald Trump. I problemi con gli immigrati ci sono stati anche all’inizio della storia statunitense, come accade sempre in un posto in cui entrino individui considerati estranei. All’epoca i “locals” non gradivano la fede cattolica professata dagli immigrati irlandesi, i tedeschi e gli italiani né la competizione asiatica – rimasta una costante nel tempo e non solo per gli USA. Oggi gli americani vivono di cibo che è prevalentemente frutto di quelle contaminazioni e in una società in cui il cibo è ben radicato ed è considerato parte del bagaglio enogastronomico tradizionale e culturale, vuol dire che il cambiamento è già avvenuto. Presuppone, quindi, un certo livello di integrazione all’interno della società, anche se spesso solo apparente.
Il punto di accesso degli immigrati per antonomasia è sempre stato Ellis Island, ma prima di Trump altri Presidenti hanno preso provvedimenti a causa dell’incremento dell’immigrazione, mettendo dei test per limitare l’accesso di analfabeti o poveri, come accadeva nel 1917. Nel 1924 l’Immigrant Act prevedeva delle quote nazionali limitate in particolare a Est Europa, Africa e non permetteva l’ingresso agli asiatici. “Per preservare l’ideale di omogeneità degli Stati Uniti”, si leggeva. Nel 1965 Lyndon Johnson firmò l’Immigration and Nationality Act per eliminare le quote di nazionalità, dando la precedenza a chi aveva già parenti che si erano stabiliti negli USA. Alla fine del XX secolo ci fu un cambiamento dei flussi migratori, i migranti arrivavano da Filippine, Messico, Corea, Repubblica Dominicana, India, Cuba e il Vietnam, stremato da una guerra infinita. Tornando più indietro, nel 1882 vennero vietati gli accessi per dieci anni ai cinesi, Carter nel 1980 limitò l’accesso degli iraniani, per non parlare di ebrei, anarchici e comunisti, che più volte sono stati inclusi nei provvedimenti… per essere esclusi dal Paese.
Uno dei cibi più amati negli USA è la pizza, uno dei simboli di New York è il pastrami, tra le specialità più diffuse ci sono quelle della cucina Tex-Mex e quella cinese. Basta dare uno sguardo all’offerta enogastronomica di un Paese così vasto per comprendere quanto il miscuglio di etnie abbia contribuito a crearne l’identità. Il largo utilizzo del mais deriva dai nativi americani, il cibo cambia di regione in regione ma non è mai immune dalle contaminazioni. Il gumbo, tipico di New Orleans, piatto ufficiale della Louisiana e amatissimo in Alabama, mette insieme la cucina di Francia, Filippine, Spagna, Africa, Germania e Italia. È da considerarsi forse il cibo-emblema del mix culturale sul quale si fondano gli Stati Uniti d’America. Buona parte della cucina che si può assaporare a New Orleans è stata contaminata dai francesi, i waffle tanto amati per colazioni e brunch sono di origine belga, i mac and cheese sono il risultato di una ricetta italiana che in epoca medievale trovò terreno fertile in Inghilterra e che poi fu portata negli Stati Uniti. Thomas Jefferson scoprì la pietanza in Europa e gli piacque così tanto che decise di importarla, rendendola presto popolare. Amish e mormoni vivono delle influenze religiose europee e l’hamburger, simbolo del made in USA, non è americano neppure nel nome.
Il primo pastrami sandwich è stato cucinato a New York nel 1887 da un migrante lituano, che a sua volta sosteneva di aver avuto la ricetta da un amico romeno. La cucina Tex-Mex impazza in ogni stato americano, così come quella asiatica. Il cinese take-away è praticamente un must – con il contributo di cinema e televisione, così come la cucina fusion, soprattutto quando c’è il thai di mezzo; l’ondata di immigrati ebrei di fine Ottocento ha influenzato molto la cucina americana, si trovano tutt’ora numerosi prodotti kocher. Nel 1777 il Marocco è stata la prima Nazione a riconoscere ufficialmente gli USA appena nati, oggi non è visto di buon occhio, il pericolo jihadista è sempre dietro l’angolo. Per le strade delle città si sente odore di spezie, kebab, falafel, si mangia pane naan, si gustano i samosa, il guacamole è una delle salse d’accompagnamento più diffuse. I musulmani non sono mai stati visti di buon occhio negli USA, al momento della conversione di Malcom X c’era il timore che ci fosse un’impennata di conversioni, personaggi del calibro di Yusuf Islam (Cat Stevens) e Muhammad Ali (Cassius Clay) avevano scelto un’altra direzione e la loro influenza sulle masse era notevole. Il cibo di origine araba è un po’ dappertutto, tra tahini, labneh, tagine, il tè o il caffè e perfino i marshmallow, che hanno origini egiziane. Hummus, pilaf e kufta, eppure negli USA ci sono 3,3 milioni di musulmani, che costituiscono solo l’1% del totale della popolazione, composta dal 70% da cristiani (e relativi sottogruppi). Oltre al cibo, inoltre, dagli arabi sono state prese in prestito altre usanze. Senza andare troppo lontano, basta pensare all’estetica: all’hennè, al kajal, il mascara, la pratica della ceretta o il balsamo per labbra. Tutta roba “in voga” già ai tempi degli antichi egizi che, ormai lo sappiamo, sono sempre stati all’avanguardia. Si può dire che la vera specialità degli americani sia stata quella di fondere le varie etnie, sebbene il tentativo di Trump corra ostinatamente nella direzione opposta. I grandi chef insegnano, tuttavia, che i forti contrasti dei sapori in un piatto fanno la differenza, colpiscono, rimangono impressi e non è un concetto da limitare ai fornelli. Insomma, le differenze possono essere costruttive. Perfino la definizione della conformazione della società americana rimanda alla cucina: melting pot, un grande calderone pieno di diversità. Il termine fu coniato dallo scrittore Israel Zangwill, nato a Londra nel 1864, da una famiglia di ebrei russi immigrati.
Foto di Federica Di Giovanni
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